Che cos’è la felicità?

di Matteo Antonin

Esiste la felicità?

Per i filosofi greci antichi la felicità (eudaimonìa) ha sempre coinciso con il fine ultimo di tutte le azioni dell’uomo, in quanto essa veniva intesa comunemente – sebbene essi divergessero tra loro sulla sua definizione – come il fine ultimo della vita. Questo era possibile in quanto gli antichi non intendevano la felicità come l’appagamento dei propri desideri e delle proprie inclinazioni (quello che oggi chiamiamo edonismo), ma la facevano coincidere con il Bene, ovvero con l’etica e la morale: per la maggior parte delle etiche antiche essere giusti e perseguire il Bene più alto coincideva con l’essere felici.

Al contrario, nell’epoca moderna la felicità perde questo carattere e questa connotazione morale, divenendo qualcosa di esclusivamente personale, legato all’individualità e alla personale soddisfazione di inclinazioni e desideri. In questa accezione moderna della felicità essa sembra divenire sempre più una chimera, un traguardo irraggiungibile.

Nonostante ciò tutti noi la cerchiamo continuamente, la inseguiamo, la bramiamo, la riteniamo un nostro diritto, e misuriamo il livello di soddisfazione della nostra esistenza sul nostro grado di felicità.

Ma anche ammettendo che la felicità che stiamo cercando esista e sia raggiungibile, che cos’è precisamente la felicità? E come possiamo raggiungerla? Essere felici è uno stato duraturo o un attimo fugace che scompare immediatamente? E ancora: la felicità è un sentimento attivo (una intensa gioia per qualcosa) o un sentimento derivante dall’assenza di qualcosa come ansie, preoccupazioni, malattie, problemi?

I filosofi, antichi e moderni hanno a lungo tentato di rispondere a queste domande nei modi più disparati.

Per alcuni filosofi antichi, come per Democrito di Abdera (460 – 360 a.C.), la felicità coincide con la “tranquillità dell’animo” (euthumia), ovvero con quello stato in cui “l’animo è calmo ed equilibrato”, non turbato cioè da timori e passioni. Qui la felicità viene intesa come tranquillità, come un’assenza di mali che turbano lo spirito. Un altro filosofo antico, Epicuro (341 – 271 a.C.), il quale presenta la propria filosofia come una “tecnica di felicità”, definisce quest’ultima come il “non avere dolore nel corpo né turbamento nell’anima”, ovvero come imperturbabilità (ataraxia) nei confronti di ciò che può turbare lo spirito dell’uomo: la paura degli dèi, la paura della morte, il confidare nel futuro (in quanto non siamo noi i “padroni del domani”) e il desiderare cose non strettamente necessarie. Liberati da queste quattro attitudini umane attraverso la filosofia, l’uomo sarà “imperturbabile”, ovvero, per Epicuro, felice.

In questa concezione di felicità come assenza di turbamento (che accomuna tra loro pensatori come Epicuro, Seneca, Schopenhauer, la ragione, e quindi la filosofia, svolge un ruolo essenziale: è infatti attraverso l’uso della ragione che l’uomo può elaborare delle regole e massime di vita che lo preserveranno nell’impetuoso mare dell’esistenza umana, impedendogli di naufragare.

Ma una tale concezione della felicità, che possiamo definire passiva, in quanto si basa sull’assenza di turbamenti e non sulla presenza di reali motivi di felicità, ci può davvero bastare?

Secondo Arthur Schopenhauer questo ci deve bastare, poiché la felicità non esiste e il massimo che possiamo ottenere dalla vita è un’esistenza priva di mali, una tranquilla serenità che trova la sua completa realizzazione in una vita priva di dolore e di sofferenze:

Poi viene l’esperienza e ci insegna che la felicità e i piaceri sono soltanto chimere che un’illusione ci mostra in lontananza, mentre la sofferenza e il dolore sono reali e si annunciano direttamente da sé, senza bisogno dell’illusione e dell’attesa. Se il suo insegnamento viene messo a frutto, smettiamo di cercare la felicità e i piaceri e ci preoccupiamo solo di sfuggire per quanto possibile alla sofferenza e al dolore.

È dunque vero che “il meglio che la vita ci possa offrire è un presente sopportabile, quieto e privo di dolore.”

Ovviamente non tutti sono d’accordo: al contrario, nella Gaia scienza Friedrich Nietzsche sottolinea come una concezione passiva della felicità sia riduttiva, e come l’uomo necessiti indissolubilmente di grandi dolori per potersi elevare, in modo speculare, a grandi picchi di felicità attiva, realizzando a pieno la propria natura umana:

[Come ] se piacere e dispiacere fossero talmente annodati insieme a un laccio , che chi vuole avere il più possibile dell’uno deve avere anche il più possibile dell’altro…sta a voi la scelta: o il minor possibile dispiacere – in una parola l’assenza di dolore – …oppure il maggior possibile dispiacere come scotto per l’incremento di una pienezza di raffinati piaceri e gioie, raramente assaporati fino ad oggi. Se vi decidete per la prima alternativa, è segno che volete deprimere e attenuare l’umana capacità di soffrire, e allora dovete anche deprimere e attenuare l’umana capacità di gioire.

Il dolore nella prospettiva nitzscheana è strettamente necessario al raggiungimento della felicità. Difficile pensare nella nostra vita quotidiana di poter desiderare picchi di dolore e sofferenze atroci per poter poi godere di corrispondenti gioie godute a piene mani. Difficile però anche rassegnarsi ad un’esistenza passiva, declinata solamente all’evitare la sofferenza.

E allora, che cos’è la felicità?

Nessun filosofo ha ancora dato una risposta esaustiva a questa domanda, e si sa che in filosofia si ha il vizio di rispondere alle domande con altre domande. Quindi chiudiamo anche noi con una domanda: e se essere felici significasse non aspirare alla felicità? O forse la felicità è a portata di mano ma noi non riusciamo a vederla?

Un saggio sufi, che conduceva una vita semplice e meditativa, ricevette la visita di un gruppo di pellegrini. «Vogliamo risolvere i nostri problemi esistenziali ed essere felici!», dissero.

Ma erano talmente litigiosi e indisciplinati che ognuno voleva parlare per primo.

«Il mio problema è più importante del tuo!» incalzò uno.

«Macché, il carico di infelicità che mi porto sulle spalle è maggiore del tuo!», sbottò un altro.

E così via finché non ne nacquero alterchi e una gran confusione.

«Ora basta! Silenzio!» urlò il saggio. «Sedetevi in cerchio e aspettate il mio ritorno».

Intimoriti, fecero come era stato ordinato.

Dopo poco, il saggio tornò e distribuì a ciascuno carta e penna. In mezzo al cerchio sistemò una piccola cesta di bambù.

«Ora scrivete sul foglio di carta il problema più importante che vi assilla. Poi, piegate il foglietto, e mettetelo nella cesta!».

Quando l’ultimo foglietto si trovò nella cesta, il saggio iniziò a mescolarli e, con tranquillità, disse: «Ora passatevi la cesta. Ciascuno scelga a caso un foglietto. Letto il problema, se lo ritiene meno assillante di quello attuale, lo faccia proprio. Altrimenti torni al proprio fardello d’infelicità e rimetta il foglietto nella cesta».

Ciascuno, leggendo i problemi degli altri, rimase terrorizzato.

«È meglio tenersi il proprio problema, almeno le sofferenze mi sono familiari», pensò ognuno.

Così, ben presto, giunsero alla conclusione che il loro peggior problema non era poi così insopportabile quanto il problema di un’altra persona. Perché addossarsi nuove tristezze?

«E pensare che avevamo creduto che tutti gli altri fossero più felici e solo noi non lo fossimo», disse il gruppo.

In pochi istanti, tutti rimisero il foglietto nella cesta. E furono talmente felici di riprendersi la propria infelicità, che a ognuno gli si stampò un sorriso sulle labbra. Così, colmi di gratitudine, ringraziarono il saggio sufi e si congedarono.

da G. MAGI, Il dito e la luna. Insegnamenti dei mistici dell’Islam, Il Punto d’Incontro, Vicenza.

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7 risposte a Che cos’è la felicità?

  1. punto_fra ha detto:

    La felicità è un argomento che mi interessa molto, infatti l’unica volta che ho provato a scrivere un libro (va be’…) trattava appunto di questo. Era una storia più o meno di fantascienza dove si scopriva l’enzima della felicità e c’era un pazzo che voleva sterminare tutti quelli che non ce l’avevano, per rendere il mondo un posto migliore (sono sicura che è un idea vincente, rubatela pure tanto io non son proprio in grado).
    Ovvio che non lo so cosa sia la felicità esattamente, io la definirei entusiasmo per la vita, ma forse è riduttivo. Comunque nel corso degli anni ho stabilito alcuni punti fissi al riguardo:
    – la felicità non è uno stato permanente e non ha quindi senso porsela come obiettivo definitivo della vita. Infatti (punto due):
    – non si può essere felici in presenza di malattia o malessere fisico, fosse anche un mal di testa
    – la felicità non dipende da nulla di esterno, ma solo dal nostro cervello e dalle reazioni di svariate sostanze chimiche al suo interno che non sto a dettagliare perché son sicura che direi cazzate. Ovviamente tutti siamo tristi se ci succede qualcosa di brutto, se una persona cara si ammala, il marito ci fa le corna, perdiamo il lavoro e via dicendo; non sono SITUAZIONI felici. Ma non bisogna dimenticare il punto uno: MOMENTI felici, o in cui ci si sente entusiasti, reattivi, pieni di energia, possono esserci nelle peggiori circostanze, ma solo se il nostro cervello ce li propone.

  2. punto_fra ha detto:

    aaaargh!! aveva ragione lui http://jumpinshark.blogspot.com/2012/02/unavvincente-racconto-sulla-correzione.html, bisognava scrivere prima in word… fate finta di non vedere dai…

  3. matteo ha detto:

    Cara punto_fra,
    grazie del commento e scusa per il ritardo con cui ti rispondo. Che la felicità non sia uno stato permanente e non abbia quindi senso porsela come obiettivo definitivo della vita è – come ho scritto nel post – una concezione molto moderna: intendere la felicità come uno stato momentaneo di soddisfazione era molto lontano dal pensiero degli antichi greci, come anche dalla concezione di alcune filosofie orientali (nel buddhismo si parla ad esempio di guarire definitivamente dal turbamento…). In questi pensieri la felicità (eu-daimonia, nel senso di avere un buon demone e quindi vivere bene) è uno stato permanente e obiettivo finale della vita.
    Un pensiero del genere è lontano anche dal mio modo di intendere la felicità (d’altra parte sono un “moderno” anch’io e una felicità duratura la vedo come un’utopia…), ma lo trovo comunque interessante…
    Questo per il tuo punto 1, per il punto 2 è per me interessante sottolineare come per alcuni filosofi, soprattutto per gli stoici, la felicità coincideva con il Bene e la Virtù, e quindi un uomo giusto sarebbe felice anche tra le 1000 sventure che hai elencato….difficile da credere ma è così: per gli stoici se un uomo è retto e giusto sarà il più felice anche “se gli succede qualcosa di brutto, se una persona cara si ammala, se il partner gli fa le corna,se perde il lavoro e via dicendo”…….
    Forse saremmo più d’accordo con Aristotele, che invece sostiene che ci vogliono alcuni beni esterni (salute, un minimo di tranquillità economica, il non nascere schiavi), naturalmente uniti alla virtù (che però da sola non basta) per essere felici…..
    Se poi la felicità scaturisca solo dal nostro cervello e dalle reazioni di svariate sostanze chimiche al suo interno questo proprio non saprei dirlo, ma credo che ridurre tutto a una reazione chimica sia in parte riduttivo….
    Mi hai regalato spunti di riflessione interessanti, ci penserò su…..

  4. Pingback: Viaggiare verso la Felicità - Viaggi della Mente

  5. Pingback: Pillole (filosofiche) blu per un amore di lunga durata | La rotta per Itaca

  6. Mario Margutti ha detto:

    Che cos’è la felicità? Partiamo dalla parola “vita”. Che cosa vuol dire vita? Vita vuol dire movimento, azione, gioco. Una persona, quindi, è viva perché fa del movimento, giusto? Per vivere, quindi, bisogna fare del movimento, delle azioni, un gioco, perseguire una motivazione = movimento. Allora felicità vuol dire partecipare a qualunque tipo di vita.

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