La filosofia come arte di vita

di Matteo Antonin

Raffaello, "La scuola di Atene"

Ne La gaia scienza Friedrich Nietzsche scrive:

Dio è morto. Dio resta morto. E noi l’abbiamo ucciso.

Come potremmo sentirci a posto, noi assassini di tutti gli assassini?

Nulla esisteva di più sacro e grande in tutto il mondo, ed ora è sanguinante sotto le nostre ginocchia: chi ci ripulirà dal sangue?

Dopo la morte di Dio è ancora possibile la filosofia?

La filosofia “col martello” di Nietzsche, il suo concetto di genealogia della morale, ci insegna a demistificare la tradizione, a smascherare i concetti nei quali viviamo e che ci fanno vivere, a distruggere tutto ciò che ci appare come sicuro, fisso ed eterno.

Ma una volta fatta tabula rasa di ogni metafisica, dopo la messa in discussione di tutti i valori, una volta posta in crisi l’universalità della costruzione morale, che cosa resta?È ancora possibile riflettere e ragionare su ciò che è giusto e su ciò che è sbagliato di fronte alla caduta delle leggi universali che si pensava governassero l’agire morale?

Secondo Nietzsche dopo la caduta della legge morale universale (ciò che il filosofo chiama morte di Dio), dopo aver messo in discussione tutti i valori fino ad oggi dati per buoni e socialmente accettati, l’individuo ricostruisce la propria morale, una serie di norme etiche alle quali egli è arrivato autonomamente attraverso un percorso individuale che lo ha allontanato dalla morale che ha passivamente assunto come vera nel corso della propria vita (ciò che Nietzsche chiama morale del gregge).

In questa prospettiva, ovvero mettendo in crisi l’universalità della costruzione morale, la pretesa di una filosofia “scientifica” (universale, oggettiva) viene a cadere, e l’unica possibilità rimanente è quella di una filosofia personale e individuale.

Alcuni filosofi contemporanei (Pierre Hadot e Michael Foucault) hanno inserito la propria riflessione in questo orizzonte, arrivando a teorizzare che l’unica risposta possibile al vuoto prodotto dalla caduta della legge morale universale è un’estetica dell’esistenza e una filosofia intesa come arte di vita.

Questi pensatori propongono di recuperare l’aspetto vitale e pratico della filosofia che era proprio degli antichi greci, ai tempi delle scuole filosofiche e prima che questa “vitalità” filosofica venisse soppiantata e sostituita da una visione accademica e teoreticistica della filosofia, che l’ha ridotta a mera trasmissione di sapere completamente separata e sconnessa dalla vita.

Secondo questi autori è necessario ricondurre la filosofia a un’origine individuale, personale e pratica.

In particolare Pierre Hadot ha dedicato numerosi testi (Che cos’è la filosofia antica?, Esercizi spirituali e filosofia antica, La filosofia come modo di vivere) all’analisi del rapporto tra filosofia intesa come arte di vita e tecnica dell’esistenza e discorso filosofico, sul quale secondo l’autore francese si basa la differenza tra la filosofia degli antichi e quella dei moderni.

La filosofia moderna altro non sarebbe che una serie di teorie astratte finalizzate alla spiegazione dell’universo: che queste teorie vengano poi applicate è del tutto irrilevante.

La filosofia antica presentataci da Hadot è lontanissima da questa prospettiva: in essa vi era uno stretto legame tra filosofia e vita. Lo scopo principale della filosofia antica era quello di modificarsi e migliorarsi: in questo senso la filosofia altro non è che un addestramento e una ginnastica propedeutica all’affrontare la vita, e non certo una serie di proposizioni speculative finalizzate alla spiegazione verbale della realtà.

Per Hadot la filosofia deve ancora oggi dipendere da una scelta di vita, da una scelta esistenziale su come si vuole essere che non può essere espressa concettualmente: nell’antichità chi frequentava una scuola filosofica (fosse l’accademia platonica piuttosto che le scuole stoico-epicuree) prima effettuava una scelta pratica di esistenza, e soltanto dopo si preoccupava di giustificarla e argomentarla filosoficamente.

In questo modo la filosofia diventa propedeutica alla saggezza, modalità di aspirazione alla saggezza e alla sapienza: non c’è differenza tra filosofia e vita: la pratica filosofica è una modalità di vita per il raggiungimento (tuttavia mai del tutto possibile) della saggezza.

Per gli antichi (e figure come Socrate o Diogene il cinico lo testimoniano) filosofo non era colui che produceva teorie filosofiche, bensì colui che viveva da filosofo.

L’esempio più famoso è forse quello di Diogene di Sinope detto il cinico. Racconta Diogene Laerzio nella sua opera Vite dei filosofi che Diogene, il quale aveva sposato una vita fatta di soli bisogni naturali necessari, – non volendo aspirare a nulla che fosse superfluo – non solo viveva dentro una botte, ma, accorgendosi che poteva bere l’acqua congiungendo le mani ad incavo, gettò via per sempre la ciotola con la quale era solito abbeverarsi, ritenendo di non averne più bisogno.

Nell’antichità aderire ad una scuola implicava una scelta esistenziale, un matrimonio di vita con i princìpi di tale scuola, un’ascesi spirituale che modellasse lo spirito e il corpo: l’importante non era la conoscenza della verità, ma la vita secondo essa.

Ma come era possibile vivere secondo la propria scelta esistenziale filosofica?

Hadot elenca tutta una serie di esercizi spirituali e fisici, i quali nelle scuole filosofiche di età ellenistico-romana contribuivano a modellare corpo e spirito, contribuendo al processo di creazione del singolo uomo e al suo progetto di soggettivazione etica e morale: attraverso una scelta filosofica l’individuo sposava un modo di vivere e una sorta di princìpi etici, i quali erano soltanto suoi, e non imposti dall’esterno.

Conoscenza e coscienza di sé, esame di coscienza quotidiano, stretto rapporto maestro-discepolo e dialogo quotidiano, meditazione, elevazione dell’io verso la totalità, premonizione dei mali, pensiero della morte e della caducità della vita sono soltanto alcuni degli esercizi propedeutici che formavano il filosofo.

Una volta formato il filosofo era pronto a pensare con la propria testa e ad affrontare la vita con saggezza: nella vita, al suo interno, senza limitarsi al solo discorso filosofico sulla vita, ma passando all’azione vera.

Di questo filosofo, come di quest’uomo in generale, c’è gran bisogno, oggi come allora: anche se Kant sottolineava come «oggi però si prende per un sognatore colui che vive in modo coerente con quello che insegna», un’attività concreta e pratica volta alla conoscenza di sé e alla trasformazione del proprio modo di vivere e di percepire il mondo è oggi non meno importante di quanto lo fosse ai tempi di Socrate e Diogene.

Scrive Pierre Hadot: «Finché su questa terra il saggio, perfetto nel suo modo di vita e nella sua conoscenza, non sarà realizzato, non vi sarà filosofia».

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